lunedì 13 ottobre 2008

XIV

XIV


In ufficio mi ero dato per malato.
La testa mi sbatte forte. Mi alzo dal letto, apro il frigo, e attacco al vasetto di marmellata. È un buon rimedio quando stai di schifo a via dell’alcool. Quattro cinque cucchiaiate e svaniscono nausea e mal di testa. O almeno ci si prova. Butto giù la marmellata col succo d’arancia, poi m’infilo di nuovo a letto.
Sotto al cuscino trovo un compact disc e un biglietto con su scritto: Chiamami presto. Alexandra. Chiamami presto? Non ce l’avevo mica il suo numero né tantomeno lei il mio. C’eravamo conosciuti al Bourbon Street, lo stesso posto in cui conobbi Janneke. Il locale del rimorchio. Alexandra era membro di un’associazione che raccoglieva fondi per la causa palestinese. Aveva lunghi capelli sottili e un viso innocente e ottimista. Alexandra sognava la pace tra israeliani e palestinesi. Per questa ragione indossava spillette con slogan pacifisti e organizzava meeting d’informazione in giro per Amsterdam. Alexandra era una tipa in gamba. Parlammo per ore della questione intendendo che il nocciolo era questo: a muovere le guerre, le devastazioni ecologiche, le speculazioni e tutti i disastri sono i soldi. Che a scannarsi siano ebrei, negri, bianchi o musulmani poco importa. L’avidità appartiene all’uomo. Hai voglia a tirare in ballo la religione, la politica o chissà cos’altro; si alza il culo dalla seggiola per interesse, altrimenti meglio restare davanti la Tv a guardare il varietà e andare a caccia.
Dopo aver scoperto che l’acqua si scalda col fuoco, e che avevamo argomenti in comune, la feci accomodare sul portapacchi della bici e venimmmo alla casa nel Quartiere.
Il cd è Space Oddity di David Bowie. Lo metto su e resto sdraiato nel letto con le mani dietro la nuca a guardare il soffitto. Infelice. È da un po’ che una serata del genere mi fa male. Poche storie. Ho piacere a stare con le ragazze, parlare degli interessi, dei sogni, farci sesso, eppure non provo niente per loro. Né affetto né gratitudine. Non riesco a sfondare l’ultimo muro di resistenza. Non riesco a darmi veramente. A ritornare a unirmi. M’importa soddisfare la mia voglia sessuale ricercando carne da addentare, masticare e dopo averne gustato il succo, sputare. Stop.
Realisticamente, sono io stesso a non sapere più come amare. Mi sto disabituando a dare affetto, ecco. Con questo tipo di approccio ho smesso d’interessarmi del loro e del mio cuore. E col passare del tempo mi rendo conto che il calore trasmesso durante questi rapporti esprime lo stesso di una lampada al neon: sintetico e freddo. I brividi caldi della passione andavano lentamente appassendo. Quella troia di Janneke è stata l’unica a cui m’ero affezionato. Ed è bastato esserle sincero una sola volta per farla scappare via. Allora stanco di avere a che fare con i sentimenti, preferisco contare sulla discreta quantità di trucchetti per approcciare una ragazza esclusivamente per chiavare, anche se il giorno dopo mi ritrovo triste nel letto con le palle svuotate.
In tutti i modi, la questione non è così semplice da risolvere. Ci sono dei momenti nella vita in cui trovarsi una ragazza è come andare alla ricerca della felicità. Come si fa a ricercare la felicità. La felicità è uno stato d’animo conseguenza di uno stile di vita positivo. Quello che credi il migliore per te. Io che lavoravo in un posto che non mi piaceva, ero lontano da casa, subivo un’estate tremendamente piovosa, non avevo un soldo in tasca, come diamine avrei potuto innamorarmi di qualcuno? Avrei preferito ammazzare piuttosto.
Insomma, accantonata la questione mi faccio una doccia. Entro in cucina gocciolando. Il lavello è ottuso da una catasta di stoviglie sporche. Pesto un pomodoro secco. La metà del mio frigo è vuota. L’altra metà, quella riservata a Johana, è carica di cibo non commestibile. I finlandesi hanno gusti tremendi nel mangiare. Andrebbero avanti a burro e patate se non gli fai notare che sugli scaffali c’è tant’altra roba.
Non potevo andare avanti tutto il giorno a succo d’arancia e marmellata. Stirai una camicia pulita, la indossai, misi la giacca e uscii di casa.
Pioveva. Dopo un breve periodo di sole e tepore eravamo ricaduti in un clima autunnale senza senso per me. Era agosto! Il cielo da settimane era sporco come i cumuli di neve vecchia ai lati della strada. Ma chi ci faceva più caso ormai. Il blu del cielo s’era ingrigito in una timidezza impenetrabile e buonanotte. In effetti da quando ero arrivato ad Amsterdam non si era mai rovesciato alcun acquazzone seguito da giorni di cielo azzurro. Anche dopo un violento nubigragio al massimo l’intensità della pioggia si affievoliva continuando a cadere leggera.
Chiedendo in giro quello vissuto non era un annus horribilis, come sospettavo. Si trattava purtroppo della norma. Alle persone quindi non fregava di passeggiare sotto la pioggia in agosto senza ombrello infradiciandosi. Sguazzava nel loro ambiente naturale.
Arrivai al mercato di Albert-Cuyp. Tanta gente tra le bancarelle con la bici al fianco.
Mi fermai dal pescivendolo, acquistai vongole italiane. Più avanti presi rucola, spinaci, melanzane, pomodori, e prezzemolo. Le verdure provenivano da Spagna, Grecia, Portogallo. Da un venditore di formaggi presi del Gouda olandese. Al mercato c’è di tutto. Una forma di globalizzazione che mi va a genio, con buona pace di Alexandra o chi per essa.
Proseguii per le bancarelle bicicletta alla mano con le buste appese al manubrio: il mulo olandese.
Il mio amico stava suonando. Pioggia o sole all’angolo tra V.d.Helstrstraat e Albert-Cuypstraat la sua musica rallegra l’aria e le voci. Suonava un contrabbasso usurato, scheggiato, picchiando col piede un cembalo per imprimere ulteriore spinta al sound. Cantava Falling in love. I passanti schioccavano le dita. Con la sua musica riusciva a tirare fuori un pezzetto di allegria alle persone, e ciò era da segnalare come prodigio assoluto. Vestiva un pantalone elegante, camicia bianca, panciotto, e il papillon colorato. Trasmetteva allegria sincera. Non era interessato ai soldi precipitati nel fodero. A lui piaceva proprio star lì in strada a suonare. Non fingeva né voleva fregarci, ecco. Era la sua passione e la rimandava intatta.
Io e lui non ci eravamo mai parlati. Mi mettevo lì, seduto sulla bici, e lo osservavo suonare. L’unico gesto d’intesa che ci scambiavamo era un lieve inchino con la testa. Per me valeva più di tante parole sprecate a capire, a farsi capire, a darsi da fare per capire. A modo nostro infatti ci comprendevamo, e non contava altro.
Quando il pezzo terminò lasciai cadere delle monete nella custodia e lo salutai.
Tornai verso casa. Misi la bicicletta alla catena ed entrai. Mi tolsi le scarpe, posai la spesa sul tavolo e feci partire il cd di Bowie.
Johana era tornata in Finlandia per le vacanze estive. Johana era una ragazza tranquilla, immacolata come la neve che nella sua anima doveva essere caduta da poco. Perfino Jerun aveva smesso di mettere gli Zep all’alba.
Comiciai a preparare il sugo con le vongole.
Alle volte fantastico di crepare come Tognazzi nel film La Grande abbuffata ingollando una pentola di patè. Altre mi chiedo dove sono andati a finire registi come Ferreri, attori come Mastroianni e perché il cinema italiano è diventato noioso e interpretato da attori senza personalità.
Squillò il telefono. Era un collega del call center.
- Santiago ho brutte notizie. Oggi in ufficio hanno detto che il mese entrante chiuderanno il dipartimento.
- Seeh, dai non scherzare, ho le vongole sul fuoco.
- Ci vogliono mandare in Scozia. È lì che trasferiranno l’ufficio. Io ci sto pensando.
Non era il tipo da fare battute. Pochi dubbi. Avevano deciso di chiudere bottega e cambiare aria.
- Dicono che ci pagano il viaggio aereo, l’affitto e la paga è buona.
- Se trasferiscono gli uffici in Scozia è per risparmiare. Non hai sentito parlare degli sgravi fiscali che regalano i governi? Funziona così. Le multinazionali o si spostano in un paese in cui pagano poche tasse o in cui la manodopera è a basso costo. Guarda cosa succede in India, in Indonesia e in Sri lanka.
- Ricordi il gruppo di indiani che ha seguito il training un paio di settimane fa? Pare che siano bravissimi e hanno grande spirito di sacrificio. Così ho sentito dire. È per questo che ho deciso di andare in Scozia. Almeno lì un lavoro ce l’ho. Non si può mai sapere.
- Almeno lì un lavoro ce l’hai.
- Giusto.
- Ho le vongole sul fuoco. Devo andare.
- A lunedì.
Riattaccai.
Quando la cottura fu al dente scolai la pasta, la saltai nel sugo e mi misi a tavola. A fine pasto mi steccai un bicchiere di rosso e del Gouda.
La pioggia ticchettava alle finestre come un gatto che chiedeva di entrare. Lo lasciai fuori.
Non sarei andato in Scozia e a breve avrei perso il lavoro.
Mi stesi sul divano. Tolsi il segnalibro e ripresi a leggere Voyage au bout de la nuit. Ero al punto in cui il medico speranzoso Bardamu, sbarcato a New York in pieno periodo fordista, viene sbattuto coi piedi per terra da un collega che gli fa presente: «Qui non abbiamo bisogno di intelligenza, abbiamo bisogno di scimpanzè!»

XIII

XIII

La osservavo, seduta in divano, con la tazzina del caffè tra le mani e le gambe accavallate. Indosso una gonna di jeans, un maglioncino di lanetta nero e grossi stivaloni di cuoio. Vera fece in modo che il ricordo di Janneke si dissolvesse in fretta. Vera era una ragazza sensuale. Di quelle che fanno girare la testa. Morivo per le sue labbra dipinte e quegli occhi taglienti dell’est. Era rumena, del resto.
Tra noi era in corso un bel duello. Vera aveva abbassato la guardia, diventando mansueta. Al contrario, osservandola all’opera al Jimmy Ho, il locale alla moda dove c’eravamo conosciuti, era di quelle svampite che hanno inteso come governare gli uomini attraverso il fascino. Di quelle che se le rivolgi la parola senza conoscerti, ti squadra capo a piede e si volta seccata. Di quelle che amano naturalmente un ambiente sociale elevato, come se il loro corpo sodo fosse predestinato ai benestanti e a chi può permetterselo. Ragazze per i più inavvicinabili, insomma. E perché Vera filava proprio me? Perché la trattavo senza quella riverenza schifa che gli uomini deboli ostentano con le belle donne, tipo cane bassotto e tutto il resto. Da parte mia non le badavo ed evitavo smancerie. Pane al pane e se c’era da dirle qualcosa glielo dicevo dritto in faccia mostrando gran temperamento. Fu così che la conquistai. Chiedendole di farmi spazio sul divano. A queste signorine chic piace qualcuno che le tenga testa. Bisogna avere polso. Ed eccoti accontentata.
Il gioco delle parti è meraviglioso. Mi dovrebbero dare un oscar ogni volta che riesco a convincere qualcuno che sono esattamente il tipo che cercano.
Avviammo a parlare di stupidaggini, seduti sul divano fronte al canale. Non le toglievo gli occhi di dosso. Lei ricambiava. Jerun era via. E senza Shina tra i piedi mi godevo la casa.
Misi su della buona salsa. Cominciammo a ballare per il salone. Ci rincorrevamo, saltavamo sui divani, ci lanciavamo i cuscini, mentre continuavamo a ridere.
Non mi comportavo così da un mucchio di tempo. Di solito andavo dritto al sodo. Mi rendevo conto di perdere il meglio dalle ragazze. Il sesso è l’arrivo, non la partenza.
Alla fine me la ritrovai tra le braccia. Stretti l’uno all’altro respiravamo col fiatone, così, senza dir nulla. Le carezzai la guancia, lei chiuse gli occhi e lentamente ci avvicinammo per baciarci. Le sue labbra si dischiusero per accogliere le mie, un attimo prima di toccarsi la serratura scattò rumorosa, Tlock-tlack!
La porta di casa s’aprì. Apparve il bassetto, l’amico di Shina. Si mise le braccia ai fianchi, prese fiato e tuonò: - Loro restano qui stasera!
Lasciai perdere Vera e gli andai incontro.
- Esci fuori e dammi le chiavi di casa.
- Io non ti do proprio niente. Entrate ragazzi.
Prima che potessero mettere piede in casa mi avventai sul bassetto con il pugno alzato pronto a menargliele. Vera mi s’attaccò alle spalle. Lo spilungone si mise in mezzo dividendoci.
- Calmati! Non fare stupidaggini! - supplicò Vera.
- Sto qui ha le chiavi di casa e non devo incazzarmi?
- Noi abbiamo regolarmente pagato l’affitto, se è per questo. - fece il bassetto.
- Ma noi chi?
- Loro! – e indicò la coppia.
- Come pagato?
- Abbiamo pagato a Shina un mese di affitto e la caparra. La camera è nostra a tutti gli effetti.
Afferrai il cellulare e chiamai quella pazza.
- Che sta succedendo qui, me lo puoi spiegare?
- Santiago io non ne voglio sapere niente. Ho già sopportato lo stress del trasloco e voglio rilassarmi. È venuto a trovarmi mio fratello, l’avvocato. Non potevo certo portarlo in quel quartiere disgustoso. Nello Jordan si sta benissimo. Sono felice.
- Ti avevo spiegato che la camera l’avevo già fittata.
- I ragazzi mi hanno dato i soldi di un mese e della caparra. Per me restano lì.
- Ma che cazzo dici?
- Non alzare la voce, Cristo! Perché mi chiami puttana! Perché mi stai offendendo! Io non ho usato questi termini nella discussione!
- Cosa dici?
- Mi hai chiamato puttana, non me lo merito!
- Io non t’ho mai chiamato puttana.
- Oh sì che l’hai fatto! Mi hai chiamato puttana! Sto registrando la conversazione. Mio fratello è un avvocato e appartengo a una famiglia molto potente. Tu mi hai chiamato puttana. Ti sei messo nei guai, Santiago. Ti sei messo in guai seri. Fai entrare i ragazzi altrimenti chiamo la polizia. Fai entrare i ragazzi dentro casa altrimenti chiamo la polizia.
Era completamente fuori di testa.
- Shina i ragazzi sono dentro casa. Avevano le chiavi.
- Sono in regola loro, io ho ricevuto i soldi. Falli entrare.
- Ma tu non avevi il diritto…
Lanciò un urlo tremendo.
- Shina hai ragione. Calmati. È tutto a posto. Tutto è risolto. Siamo felici. Ora ci mettiamo il pigiama e andiamo a dormire.
- Bene.
- Sì. Bene.
- Salutameli.
Attaccai. E rabbiosamente buttai il cellulare nel canale. I ragazzi mi guardarono turbati.
- Portate le valige in casa. Per questa sera restate qui.
- L’hai capita! – fece il bassetto.
Vera se ne andò contrariata dicendomi: - Buona fortuna. Ne hai bisogno.
Appena uscì ascoltai grugnire. Proprio un grugnito di maiale.
- Ehi, quello era un grugnito! Mica avete bestie con voi?
- Non è una bestia. È un maialino nano. Si chiama Baby. - fece lo spilungone.
Aprì una cuccetta per gatti e liberò Baby, che per la contentezza di vedermi prontamente pisciò sul parquet.
Il cerchio era chiuso.
Quella notte non chiusi occhio. Chi avevo fatto entrare in casa? Qualcosa, tuttavia, mi diceva che avevo fatto bene a sistemarli. Quei due avevano delle facce spaesate. L’importante era sopravvivere fino al mattino.
Il giorno dopo tornai da lavoro e parlai con lo spilungone della questione. Gli spiegai il disastro montato da Shina. Non potevano restare un mese. Quel fine settimana la finlandese avrebbe preso possesso della camera. Lui capì senza fare storie. Avrebbe cercato un altro posto, semplicemente. La cifra anticipata a Shina l’avrebbe di certo avuta indietro, bastava parlare col bassetto, disse, era lui in contatto con Shina. L’avevano conosciuta la sera prima di incontrarci in un pub. Shina gli aveva promesso la stanza senza aggiungere altro. I ragazzi le avevano creduto, dato che non sapevano dove andare.
Preparai un caffè, ci sedemmo sul divano e ci conoscemmo con calma. Lo spilungone si chiamava Miro, la ragazza Stella. Miro era figlio di acrobati. La famiglia di Stella portava in giro per Praga un teatrino di marionette. Tra le due famiglie esisteva un odio profondo. In passato c’era scappato anche il morto. Suo padre poco prima di partire per l’Olanda gli prese cinquecento soldi dai suoi risparmi. Lo aveva fatto per il suo interesse, diceva, altrimenti la zingara glieli avrebbe portati via. Fecero a botte ma i soldi non li rivide più. Miro e Stella sognavano di mettere su un teatrino di marionette tutto loro e girare l’Europa. Per campare adesso cercava lavoro come carpentiere.
- Pagano bene in Olanda come carpentiere. – disse gagliardo.
Avevo un mucchio di recapiti di agenzie di lavoro interinale. Trascrissi su un foglio quelle che potevano interessarlo. Miro mi ringraziò e ci stringemmo la mano. Miro somigliava a Zampanò.

Un giorno incontrai Vera per strada. Dovetti correrle dietro, parve evitarmi di proposito.
- Stai attento che ti rubano in casa. Io la conosco a quella gente lì. Sono dei miserabili.
- Vera stai tranquilla. Sono delle persone a posto.
- Non li hai cacciati di casa?
- No.
- Hai fatto male.
Vera non venne più a prendere il caffè a casa mia.
Era il trentuno luglio. Tornai a casa dal lavoro dopo una giornata massacrante. Miro e Stella erano andati via. Sul tavolo nell’ingresso trovai il cappello da baseball di Miro e un biglietto: Thanks Santiago. Miro e Stella.
Neppure loro rividi più.

domenica 10 agosto 2008

XII

XII

Nota lieta: con la clemenza di Pluvio s’avviò a frequentare il parco assiduamente. Le giornate si erano allungate al punto che alle nove di sera splendeva ancora il sole, perché eravamo vicino al Circolo Polare e tutto il resto. La temperatura dell’aria si addolciva. Stavamo all’aria aperta e il colorito rinvigoriva.
Il miglioramento delle condizioni meteorologiche restituì nuova linfa alla popolazione che venne fuori da un periodo grigio, come un lungo letargo. In questo tempo favorevole una nuova specie stirò il collo fuori dalla tana ad annusare l’aria frizzante dell’estate, una popolazione rintanata per l’intero inverno si mostrava allegra e vivace: le olandesi in bicicletta. Erano loro ad aver conquistato la città. Le Dee bionde su due ruote. Schiena sinuosa, capelli al vento, sedere ben piantato sul sellino, gambe lunghe a dar decisi colpi di pedale, polpacci pieni come frutti maturi, gonne lunghe svolazzanti, gonne corte depravate, mutandine che apparivano come gemme dalle loro cosce affaticate. Una carovana di bellezza atletica da far ribollire il sangue. Le ragazze avevano voglia di togliersi di dosso il peso dell’inverno, di spogliarsi e darsi anima e corpo a noi uomini eccitati. L’erotismo infiammava le strade di Amsterdam come Nerone aveva fatto con Roma.
Fu grazie a questo cataclisma di eccitazione che mi capitò di uscire con un paio di loro di fila senza sbattermi. Janneke la conobbi al Bourbon street, il locale del rimorchio. Era bionda, alta, con un diamante incassato in un incisivo. Le piacqui e la cosa ingranò. Facemmo l’amore quella sera stessa. Fu bello. E andai oltre. Mi premeva chiamarla per sapere come stava, ogni tanto le regalavo un fiore, e l’accompagnavo fin sotto il portone dandole il bacio della buonanotte. Quando uscivo da lavoro ci incontravamo al parco, e pedalando ci tenevamo per mano ognuno sulla sua bici. Piano piano sentivo rinascere un certo fuoco dritto nel petto. Lei mi chiese di fidanzarci. Io accettai.

Un giorno eravamo al Vondel park stesi su un plaid a prendere il sole. Janneke mi guardò dritto negli occhi e mi fece: «Santiago che ambizioni hai nella vita? Il tuo lavoro ti soddisfa? Ti senti realizzato? Come immagini il tuo futuro?» Mi fece piacere che Janneke s’interessasse a me. Misi da parte quell’assurda abitudine di dire balle e mi confessai sinceramente. Verità che tenevo nascoste dentro chissà da quanto.
Le risposi di essere confuso. Avrei voluto cambiare lavoro perchè mentivo a me stesso tutti i giorni ma non avevo il coraggio di farlo. Il mio futuro lo percepivo incerto, senza punti fermi. Prima non era così. Un tempo ero sicuro di me e di quello che facevo. Prendevo di petto ogni situazione e anche con le ossa rotte ne uscivo sempre fuori. Ora le cose erano cambiate. Una parte di quel coraggio era svanita, lasciandomi inerme al mio destino, incapace di prendere la situazione in mano.
Fin da piccolo, le raccontai, avevo la passione per la lettura. I miei preferiti erano i libri di geografia e scienze naturali. Mi piacevano gli animali e la natura. Poi comiciai a leggere autori come Pavese, Calvino, Stephen King e venne anche a me la voglia di scrivere. Negli anni autori come Céline, Bukowski, Flaubert, erano degli eroi per me. Mi spalancarono le porte sul mondo senza averlo vissuto. Un mondo cattivo. Il mondo degli uomini.
In tutti i modi, terminata la scuola dell’obbligo cominciai a lavorare con mio padre nella falegnameria. Poco dopo mio padre si fece saltare in aria una mano e decisi di smettere. A come ero sbadato minimo ci avrei lasciato le braccia. Fu allora che decisi di assecondare il mio sogno: mi trasferii a Roma per diventare uno scrittore. Lasciai Castellammare senza alcun rimpianto. Sarei tornato per trascorrere la vecchiaia, pensai.
Il primo lavoro che trovai per mantenermi fu in un call center. Guadagnavo il tanto per sopravvivere. Spesso gli ultimi giorni del mese restavo senza mangiare. Ma non mi fregava. In quel periodo c’ero dentro. Scrivevo e bevevo come un dannato preso al guinzaglio dal mito dei miei eroi sbronzi che immaginavo seduti al tavolino di un bar: Kerouac, Cèline, Miller, Bukowski… e facevo di tutto per sedermi con loro.
Trovai un secondo lavoro. Con una rivista on-line chiamata Pickwick. Mi spedivano i libri a casa, li recensivo e mi pagavano quindici soldi ad articolo. Di certo il miglior lavoro mai avuto. Attraverso tutto quel leggere afferrai di che pasta fossero fatti gli scrittori. Una categoria complessa, sai? Non c’è un modello. Ci sono quelli che scrivono per raccontare una storia, un diario; quelli che pubblicano a pagamento arricchendo editori e inondando d’idiozie il mondo; quelli che si danno le arie. Altri invece sono convinti di essere dei dannati e bevono fino a farsi venire il rimorso d’aver vomitato sangue. C’è anche la categoria dei raccomandati. Ne ho recensiti parecchi di cantanti, politici, attori, figli di questo o quell’altro che s’erano cimentati nella scrittura e inviavano lettere di lamentele in redazione a causa dei miei giudizi. Ma se quei libri per me erano merda, cosa avrei dovuto dire? Eppure parecchi di loro sono convinti di essere bravi. Credono di avere talento. Leggendo l’ultimo best seller dicono: «Potrei scriverlo anch’io, e perfino migliore; cos'ho meno di questo mezzasega?». Per fortuna ci sono anche quelli che mille per mille ce l’hanno dentro il talento, non ci sono bluff, hanno la testa quadrata, sono caparbi e credono a ragione che la tenacia sia la strada per migliorare. E diventano scrittori.
Purtroppo da Pickwick non durò parecchio. La casa editrice fallì. Mi restò il call center. Che periodo infelice. Tutto quello che toccavo finiva in malora. Tutto tranne Penelope. Un piatto di spaghetti, un abbraccio mozzafiato e il mondo era perfetto.
(Janneke intanto ascoltava attenta)
Insomma il tempo passava e le cose non ingranavano. Nonostante mi dessi da fare parecchio i miei racconti non facevano sangue. Erano noiosi, sciatti, riciclati; così li definivano. Avevo ormai una pila intera di lettere di rifiuto da parte di editori da mezza Italia, tutti con lo stesso incipit: «Caro Sig. Sanchez, ci dispiace comunicarle che il suo manoscritto non rientra…» e bla bla bla. Non mi diedi per vinto. Continuai a scrivere pur sapendo che in qualcosa sgarravo. Cercai di cambiar genere. Mi diedi all’horror, al noir, al poliziesco, al romantico, scrissi perfino alcuni pezzi pornografici. Poi non ci capii più niente. E tornai sui miei passi. Tornai a scrivere di me. Solo di me sapevo scrivere. Osservavo il mondo, mi disgustavo o ridevo, e trasferivo il casino filtrato sui fogli. Niente. Sempre rifiuti, sempre fuori collana, fuori luogo, fuori dalle palle, e ogni volta i miei sogni si infrangevano contro un bastardo NO!
Scott Fitzgerald ebbe centoventi rifiuti prima di essere pubblicato. Io non arrivai a trenta e mollai tutto. Non ero fatto per scrivere, tutto lì. In anni di pratica non avevo ancora afferrato niente. Semplicemente, non faceva per me. Meglio dedicare il tempo ad altre storie. Poi, beh, ho lasciato perdere Penelope, mi sono trasferito ad Amsterdam, e ora aspetto qualcosa che mi scuota.
Janneke lasciò cadere le mie parole nel silenzio. Mi carezzò la guancia e si mise a prendere il sole.
Quella sera l’accompagnai a casa. Non mi invitò a salire. Ci baciammo. E da quel momento scomparve. Provai a chiamarla decine di volte inutilmente. Il suo cellulare era sempre spento. A casa non rispondeva nessuno. Mi preoccupai. Ero convinto le fosse accaduto qualcosa di terribile. Ero pronto a informare la polizia quando Gaetano mi raccontò che Janneke aveva preso a frequentare un suo collega d’ufficio.

venerdì 20 giugno 2008

XI

XI


A maggio il mondo è bello e invitante di colori, canta a ragione Jovanotti. Beh, qui ad Amsterdam la primavera è umida, piovosa, e senza riguardo per le rose e le margherite che sbocciano profumate nei campi verdi di mezza Europa. Cappelli di lana e cappotti. Vento freddo e geloni alle mani. Ecco cosa ci tocca a noi residenti in Olanda alle soglie dell’estate.
Nei rari giorni di cielo azzurro e sole splendente nessuno rimane in casa. Come lucertole incameriamo anche una flebile stilla di calore custodendola avidamente. Questa scorta d’energia fa bene. Una bella giornata rinnova lo spirito della città. La musica si sparge nell’aria. La musica è ovunque. Swing maliziosi s’arrampicano nei bar, nelle piazze, anche lo sferragliare del tram diventa musicale. Pedalando in bicicletta si vedono i ragazzi portarsi dietro contrabassi, chitarre, clarini, trombe, sassofoni, pianole, e molti altri se ne incontrano al parco dove prende piede la jam session.
In città ci sono diversi posti in cui si danno appuntamento i musicisti, quando anche a noi lavoratori è concesso ascoltarli. Uno di questi è Alto Cafè. È un buco, piccolo e fumoso. Non gli daresti un soldo se non fosse che di lì passano i migliori jazzisti della città, quelli che probabilmente hanno già suonato al Bimhuis, ma ne hanno ancora voglia e vengono all’Alto restandoci fino a notte tarda, sudando e suonando mentre noialtri buttiamo giù birra. L’Alto Cafè è un posto in cui mi rifugio quando ho voglia di starmene per conto mio tra la gente. Puoi startene per conto tuo a casa o tra la gente. Sono forme di solitudine identiche.
Shina durante la settimana impiegava il tempo sdraiata sul divano a guardare la Tv, fumare canne e bere vino. Non tanto, solo mezza bottiglia. Quella sera le chiesi di farmi compagnia.
- Ti va di venire in un locale jazz?
- Non lo so, Santiago, domani lavoro.
- Anch’io domani lavoro. È solo per svagarsi e prendere un po’ d’aria. Ci divertiremo te lo prometto.
Shina si convinse. Mise su un paio di jeans aderenti e un maglioncino nero a collo alto. Aveva un buon profumo. Cambiò aspetto. Era carina. Montammo in bici e avviai a pedalare spedito tra le viuzze del centro con Shina seduta sul portapacchi.
- Come fili veloce. Le conosci bene le strade di questa città. - disse.
- Vivo ad Amsterdam da sei mesi.
- Pensa, io da un anno, e non so nemmeno dove siamo.
Con la bicicletta avevo girato la città in lungo e in largo esplorandola senza traffico e senza pericoli. Ormai conoscevo scorciatoie che mi portavano sempre dritto alla X.
Arrivammo a Leidseplein dopo alcuni minuti. Misi la bici alla catena ed entrammo all’Alto Cafè. Prendemmo posto a un tavolino non lontano dal palco. Shina rullò una canna di fumo. Io andai al banco e ordinai due birre. Avviammo a conversare mentre aspettavamo la band.
Lentamente dal viso di Shina parve dissolversi quell’angosciosa espressione che la invecchiava. E io la guardavo come non l’avevo mai vista prima: Shina era una bella ragazza.
Il gruppo salì sul palco. Sistemò gli strumenti, si guardarono per intendersi, e one… two… three… attacarono con un blues armonico. Il cantante era un negro longilineo dai muscoli fibrosi. Partì di slancio. Si muoveva sul palchetto come un divo facendo tremare le gambe, mimando mosse di breakdance e non stava fermo un attimo lanciandosi il microfono da una mano all'altra come fosse bollente. Avresti detto ch’era buffo, ridicolo con quelle moine da bulletto, eppure qualcosa in lui lasciava di sasso. Un’energia selvaggia difficile da trovare in giro. E lui lo sapeva bene. Per questo si permetteva quelle sceneggiate. Ai fenomeni perfino il ridicolo viene tramutato in eccentricità.
Dopo alcune modulazioni vocali fece una piroetta e puntò il microfono al chitarrista il quale non esitò lasciandosi andare in un assolo vigoroso. Teneva la chitarra poggiata sulla pancia come una gatta e l’accarezzava con gli occhi chiusi. Spontaneamente avviò a raccontarci una storia sulla Louisiana. Una storia nera. Di notti afose, colpi di genio, fantasia. Un’estate torrida dove la spiga viene affossata dall’umidità. Il canto blues dei creoli in marcia, possenti come un bosco di legname pregiato, si sparge tra i campi come concime fresco rinvigorendo i fusti, sollevando dall’apatia il raccolto. Il sacrificio, andava dicendo, è la dimora della fecondazione. La musica salva dalla povertà, libera dalle catene di piombo. La fame del Sud si sazia con le vibrazioni non con il lavoro; la speranza, la via d’uscita alla disgrazia, è qui distesa sul mio stomaco.
Questo andò raccontando mentre si srotolavano via le immagini di ampie distese americane. Che genio amico! Questa si che è musica! Il chitarrista sgranò gli occhi e si ritrovò di nuovo in sala mentre noialtri con la lingua di fuori ci spellavamo le mani. Bravo! Bravo! Bravo! La temperatura all’Alto salì di colpo. Cominciammo a muovere il culo dagli sgabelli, a fischiare, ordinare birra, fumare tabacco. Il locale andò saturandosi di fumo e atmosfera.
Il cantante fece roteare ancora il microfono, si lanciò in alcuni passi di tip-tap, alzò il braccio alla sua sinistra come un lanciatore di baseball indicando il pianoforte. Il pianista afferrò al volo l’invito. Partí spedito. Era bianco lui, l’unico del gruppo. Suonava tension con una postura dritta mentre le mani sussultavano sui tasti. Il pianista aveva raccolto l’eredità della chitarra e ne seguiva la ritmica agilmente. Saliva gli scalini di una torre che giravano in tondo; sound sofisticato, estroverso, figlio di numerose letture e studi alla ricerca del talento. Cervello per l’improvvisazione. Tasti come mattoni, pensieri come pallottole, fino alla cima stessa del suono. Si tramutò in un acrobata alle prese con un volo superbo, capace di sedurre l’anima, quell’anima che in maniera elegante riduceva in minuscole schegge di ghiaccio. Trasportati fino alla cima della torre ci venne incontro una fresca brezza musicale. Scorgemmo allora l’intera vallata e tutto quello ci stava intorno, il fiume, il cielo, la foresta. Partì un lungo applauso mentre il pianista restava immerso nei tasti.
Poi, improvvisamente, come un salto nel vuoto, un silenzio irreale. La brezza del piano lasciò il posto alla quiete ombrosa del basso. Il contrabbassista era spuntato fuori dal nulla, nascosto com’era dallo strumento. Si trattava di un colosso di due metri che pizzicava con decisione le grasse dita sulle corde, bianche e spalancate come i fanoni di una balena. Seguí la rotta segnata dagli altri due, ma in direzione opposta. Ora non si andava verso il cielo. Si planava velocemente nelle profondità stesse del suono, nell’intimo sottosuolo. Il sound si tramutò negli echi soffusi di una caverna; le note volavano via come il battito d’ali del pipistrello alimentando nel petto una vibrazione interminabile; il suono filtrava tra le costole, penetrava la carne, lo stomaco, le interiora, fasciando l’anima, avvolgendola di onde solide, bardandola in una morsa pastosa, densa come sangue. Nella penombra della sala arrivammo fino al centro della terra battendo il tempo con i piedi. Nel momento in cui il capobanda rullò il microfono per cambiar rotta, il colosso diede tre colpi decisi alle corde formando una sola matassa d’energia che restò sospesa nell’aria verso il batterista.
Non stavamo più nella pelle. Eravamo seduti in punta alla sedia. Questi qui erano dei fenomeni! Non appartenevano al tempo che vivevano. Erano musicisti del Greenwich Village capitati chissà come nell’Alto Cafè. Se fossero spuntati Keruoac e Ginsberg strafatti d’erba che tenevano il tempo con le dita ci avrei creduto, perchè era giusto così che andavano le cose a quei tempi.
Mentre fantasticavo il batterista attaccò. Non fu un buon avvio. Il ritmo del basso s’era allontanato, quasi sparito dalla sala. Stette sulle sue, il batterista. Ci girava intorno senza trovare la via giusta. Allora in noi montò un alito di disappunto. Si ritrovò di fronte una trentina di persone che restavano col fiato in gola e si aspettavano da lui una sterzata. Com’era possibile che in quel gruppo prodigioso ci fosse una nota stonata?
Fu come se al batterista gli avessimo trasmesso il nostro disappunto. Aggrottò le sopraciglia e ci diede dentro. Lentamente, come un riverbero lontano, il sound prese ad avvicinarsi guadagnando terreno. L’osmosi era compiuta! Corresse il tiro l’amico, e stringendo i denti ferrò una parte delle note rimaste sospese nell’aria, quelle note che riuscivi a tenere a mente, difficili da mandar via. Ora s’intravedeva la sagoma del beat montare dietro di lui, sospesa a un palmo dalla testa, in agguato come una tigre; eccolo, stava per raggiungerlo, il ritmo, il ritmo, batti sul piatto, un solo centimetro, non fermarti, tienilo a bada, mettilo al guinzaglio, domalo! E il beat lo catturò. Quel riverbero lontano divenne un’onda ruggente che irruppe sui tamburi e i piatti, un’esplosione di suono che tirò per aria sassi e sabbia lanciandoli ovunque; un’onda che urlava, ci abbrancava, tornando indietro risucchiata dall’oceano e squassandosi tra le rocce; un’onda che strappava dalle seggiole, mentre i piedi e le mani continuavano a seguire quel ritmo bruciante, travolgente, tà tà, tà tà tush! Non c’era modo di tenerci fermi, perfino i bicchieri si muovevano da soli, tà tà, tà tà tush! Il cantante balzò nella musica al momento giusto e il gruppo ripartì da dove aveva cominciato. Che goduria!
Continuarono senza fermarsi fino a notte inoltrata.
Quando io e Shina venimmo fuori dall’Alto eravamo euforici. Montammo in bici e prendemmo la via di casa. Due pedalate appena e cademmo per terra sfiorando il bordo del canale. Ridevamo, stonati dal fumo e dall’alcool con la musica che ci rimbombava ancora in testa. Le stelle ci guardavano silenziose mentre un sospiro leggero venne da lontano come un baleno di jazz. Ci alzammo ridendo e un istante dopo eccoci a pedalare tra i canali illuminati che accendono l’anima romantica di Amsterdam.
Arrivammo nel Quartiere attraversando i turisti e le vetrine. Entrammo in casa. C’era qualcosa di speciale tra noi quella sera. A un passo dal capitolare. Ma nessuno dei due ebbe il coraggio di afferrarne l’essenza. L’euforia pian piano si tramutò in pudore, malinconia, fino a che il richiamo sessuale scomparve del tutto. Dopo esserci scambiati la buonanotte, io andai a dormire sul soppalco e Shina nella sua stanza.
A Shina girò male. Nei giorni seguenti era sempre d’umore nero e non mi rivolgeva un saluto. Quella magnifica serata all’Alto per lei era già dimenticata. Ci sono volte in cui tutto sembra facile e farlo la cosa più spontanea. Ma non sempre le cose vanno per il verso che crediamo, anche se brucia ammetterlo. Tutto lì. Ma lei aveva la testa dura di una scozzese, e non la pensava uguale.
Un giorno trovai una scatola colorata sul tavolo. Sembrava una scatola di bambole Barbie. Incuriosito diedi un’occhiata. Si trattava di un enorme fallo di gomma provvisto di gel lubrificante. Shina doveva sentirsi proprio sola, pensai. Difatti quella notte rincasò con un tizio. Erano entrambi ubriachi fradici. Il tizio si mise a cantare God save the Queen in soggiorno.
- Hey! Sono le tre del mattino! – gli bisbigliai infuriato.
Dalla balconata del soppalco lanciai un’occhiataccia a Shina. Quella svitata con il dito alla bocca faceva sshhh, sshhh, ma era talmente fatta che si rivolgeva all’armadio. Il tipo smise di cantare e i due andarono in camera. Shina ripeteva: «È un bravo ragazzo, è un bravo ragazzo, però è impotente sai? Poverino… è impotente…». Un attimo dopo i passi pesanti del vicino matto fecero tremare il soffitto. Mise su a palla un grande pezzo, Dazed and Confused.
Non ci fu verso di prendere sonno fino all’ora della sveglia.
Il giorno dopo spiegai a Shina la situazione. Lei secca rispose: - Ok, cercherò di stare più attenta.
- A proposito. Ho trovato questi pacchetti sul tavolo, cosa sono, incentivi per la vendita? - la misi sul ridere.
- Pensavo quella porcheria fosse roba tua.
Mi voltò le spalle e si congedò infastidita.
Da quel momento Shina divenne insopportabile. Tutti i propositi di buona condotta si rivelarono una balla. Rincasava sbronza ogni sera con un tipo diverso facendo baccano non curandosi del vicino. Se ne sbatteva, ecco.
Tra me e lei le cose precipitarono in breve.
Appena fuori dal lavoro accesi il cellulare. In segreteria trovai un messaggio di Jerun, il vicino matto: «Figlio di puttana se canti ancora scendo giù e ti rompo il culo! T’ho avvertito, ti rompo il culo!».
Aprii la porta di casa. Shina era sul divano invasa dal fumo delle canne che guardava la Tv. A terra diverse bottiglie di vino e whisky vuotate. La stanza puzzava.
- Hai saltato il lavoro? – le chiesi.
- Non mi andava. Ho avuto ospiti.
- Non senti il puzzo?
- No, non mi sembra ci puzzi. Forse hai pestato una merda!
Aprii le finestre.
Era deciso, se ne doveva andare.
Dal lavoro le inviai una email in cui le spiegavo i miei motivi. Le offrivo un mese di tempo per trovarsi un altro alloggio. Con me aveva chiuso. Shina rispose immediatamente: «Tanto anch’io avevo pensato di trovarmi un altro posto. Tu sei una barba».
Postai lo stesso annuncio di qualche mese prima. Ottenne lo stesso successo. Ogni giorno almeno un paio di tizi venivano a vedere la casa. Dopo due settimane trascorse a domandare agli aspiranti flatmate se fossero alcolizzati scelsi una grassona finlandese con occhi mansueti e una naturale gentilezza d’animo. Si chiamava Johana.
Prima del trasloco parlavamo poco io e Shina. E quando lo facevamo non ci scambiavamo nemmeno il buongiorno.
- Santiago, quando hai intenzione di togliere dal tavolo quei due grossi cazzoni che hai comprato?
- Quando a te tornerà la memoria!
Shina fittò un appartamento nello Jordan, il quartiere chic, per mille soldi al mese. La casa era un sogno, diceva. Aveva la jacuzzi, il videocitofono e il vicinato non era frequentato da puttane e junkies bensì da gente onesta e lavoratrice. Poi se ne uscì: - Ho degli amici interessati alla camera, vengono a vederla stasera.
- Non farli venire. La camera la fitto a una mia amica finlandese. Sono già d’accordo con lei.
Shina non rispose.
Manco a dirlo quella sera arrivarono i suoi amici, uno spilungone con un cappello da baseball, una zingara, e un tizio bassetto che mi venne subito antipatico. Shina li salutò calorosamente. Mi chiese di sedermi a tavolo con loro e parlare. Fu il bassetto a esporre i fatti. Lo fece col piglio di chi sapeva il fatto suo.
- Loro sono molto interessati alla camera. Sono ragazzi puliti e non hanno grilli per la testa. Gli piace molto il quartiere. Sono disposti a prendere possesso della stanza appena Shina traslocherà. Non ho da aggiungere altro, penso che la cosa sia ok? Affare fatto?
- No, non va bene ragazzi, - dissi netto - la camera l’ho già promessa. È inutile discuterne. Non ho nulla contro di voi, è solo che la parola data va rispettata.
Il bassetto restò in silenzio. Guardò prima me, poi Shina, e con aria turbata s’alzò dalla sedia. Fece cenno alla coppia di andare e loro senza fare una piega lo seguirono uscendo senza salutare.
- Shina mi dici che diavolo succede?
- Niente, risolvo tutto io.
E uscì con loro.

venerdì 25 aprile 2008

X

X


La metropolitana l’abbruttiamo noi, il popolo delle multinazionali. È negli occhi spenti e indifferenti incrociati la mattina che afferro il guasto generalizzato. Durante il tragitto che conduce agli uffici non s’ascoltano voci né risa né una chiacchera allegra. Ad ogni fermata ci accompagna il ronzio delle porte pneumatiche, l’incessante miscela di scricchiolii e sollecitazioni meccaniche dei mezzi a rotaia, e la voce robotizzata dell’annunciatore che indica la stazione d’arrivo.
Non sono il solo a penare.
L’irritazione che prende ognuno a restare insieme nello scompartimento è evidente. Aleggia uno spirito di intolleranza profonda. Perfino una scorreggia sarebbe preferibile a quel tedio. Ognuno cerca una via d’uscita. La maggior parte guarda fuori al finestrino scorrere nuvole e case grige. Altri ascoltano musica nelle cuffiette. Qualcuno è immerso nella lettura. Evitiamo la realtà. Osservarsi allo specchio e scoprire che fine di merda abbiamo fatto è dura.
Una volta smontati dal vagone ci dirigiamo compatti come guerrieri in marcia verso gli uffici. Tlack-tlack! Tlack-tlack! Tlack-tlack! Il frastuono delle suole sul selciato segna il passo. Una truppa compatta decisa a prendere posto sui rispettivi seggioloni. Sguardo fermo, busto eretto, passo determinato. Molti danno l’impressione di accingersi a una mansione urgente e carica di responsabilità. A me invece tocca impegnare la giornata a risolvere l’inceppo di un lettore codici a barre, il registratore di cassa che calcola senz’IVA, il collega che resta in pausa mezz’ora, l’altro che non risponde al telefono e bagattelle simili.
Che cosa triste! E dire che la mia vita è disegnata, senza scossoni, al riparo, assicurata. Potrei continuare così fino alla pensione. Le multinazionali americane, a differenza che in Italia, fanno di tutto per non cambiare personale in continuazione. Pagano di tasca propria il dentista, l’abbonamento della metro, gli straordinari tre volte tanto, e se resti con loro per più di sei mesi, gioia e tripudio, ti gratificano con un’aumento di cinquanta soldi in busta paga. Molti dei colleghi avevano comprato casa mettendosi le spalle al sicuro. Un lavoro semplice pagato decisamente bene, suggerivano. Cosa desiderare di più.
Eppure io non la vedevo così. Io non ero come loro. Sentivo di dovermi confrontare con altre attività. Lì dentro sprecavo il tempo.
Un alienato del ventunesimo secolo, ecco cos’ero. Un uomo/computer ben retribuito, con una casa dai soffitti alti, il frigo pieno, saltato a piè pari nel comune vortice della vita moderna come chiunque altro voglia essere indipendente: un lavoro del cazzo, dei soldi del cazzo, un weekend del cazzo, scopate del cazzo. Per il privilegio di non morire di fame e possedere tutto ciò, mi toccava restare seduto con le cuffie allacciate per otto ore e rispondere a quesiti banali.
In ogni modo dovevo produrre reddito per cavarmela e mi stava andando anche bene, mi rispondevo. Ma era quello il modo giusto per farlo?
Amsterdam offriva tanto svago dopo lavoro. Uno volta mi piaceva l’arte, i concerti, le mostre, il teatro. Adesso mi ero impigrito al punto che non mi andava niente. Spesso mi chiudevo in casa a guardare la pioggia venire giù inesauribile, senza energie, senza vitalità, senza senso. Avevo anche perduto la voglia di scrivere. Non ne sentivo il bisogno.
In tutti i modi, seduto come un coglione sul seggiolone, con le cuffie allacciate, mi venne in mente Adorno.
A quel tempo vivevo a Roma. Una metropoli trafficata, ruomorosa e sporca che Amsterdam a confronto era l’Eden. Vivere a Roma significava prendere coscienza degli attegiamenti tipici degli italiani. Roma era la città delle macchine di grossa cilindrata che non si fermavano al rosso, dei funzionari che poltrivano negli uffici ministeriali, degli appartamenti fittati agli universitari, la città dello shopping a Via del Corso che per un paio d’ore faceva sentire importanti le schampiste. Roma era una città invasa dai turisti trattati come bestiame buono solo a sganciare soldi a chi li fregava come tassisti e ristoratori. Roma era la sede della politica e gli uffici importanti erano protetti da buttafuori in occhiale da sole scuro e auricolare manco fossero i Mr. Smith di Matrix.
Roma era un città ricca. Perché tutti i soldi d’Italia in un modo a nell’altro passsavano di lì. E mi appariva come un’enorme mangiatoia d’oro in cui si ristoravano maiali e scrofe ben pasciuti. Ma Roma era anche la città degli impiegati al call center a settecento soldi al mese. Contratto di tre mesi, se andava bene. E con il costo spropositato dei fitti, del cibo, dei trasporti, dello svago, qualunque progetto con quel misero stipendio veniva represso. L’intero salario si restituiva paro paro per sopravvivere. A fine mese non restava proprio nulla in tasca, e toccava ricominciare daccapo. Eravamo in ostaggio. Senza via di fuga. Quest’ansia di arrivare a fine mese sempre agli sgoccioli, mentre dall’altro lato della strada c’era chi ostentava ricchezza volgarmente, aumentava la competizione. In città si avvertiva la rivalità tra la gente del popolo. Una guerra gratuita in cui si doveva fottere anzichè aiutare. Arricchirsi prima di tutto, poi il resto non conta. Una smania tremenda che, a come la vedevo io, veniva fuori chiara dai programmi televisivi. Io e Adorno restavamo giornate intere a trastullarci con Buona Domenica, Amici, e merdate simili. Tutto s’era ridotto a una gara. Classifica. Primo e ultimo. In quei programmi televisivi s’era persa la gioia di fare le cose per il gusto di farle e si andava avanti a furia di giurie che alzavano palette per decretare il migliore. La danza, il calcio, il canto, la recitazione, attività che da sempre rappresentavano uno svago erano di colpo diventati obiettivi importanti, così importanti che i ragazzi si battevano per sconfiggere la brutta malattia del tempo: l’anonimato.
Grazie a Penelope e Adorno, però, Roma diventava di colpo immortale e immensa come le sue rovine, con i vicoli silenziosi di Trastevere, i palazzi storici di piazza Navona, e la potenza dell’Impero che veniva fuori da ogni pietra.
Adorno faceva il postino. Fu proprio incontrandoci sotto al portone di casa mentre consegnava la posta che ci conoscemmo.
«Un altro napoletano a Roma. Che sei venuto a vendere anche tu la Fontana di Trevi?»
Gli risposi a muso duro che volevo fare lo scrittore. Lui replicò che ero pazzo. Così cominciò la nostra amicizia. Anche lui scriveva. Lavorare come postino poche ore la mattina gli permetteva di dedicarsi all’interesse per la scrittura pienamente. Nel tempo libero organizzava letture, stampava a sue spese una rivista letteraria seguita, e tutto il resto.
È uno in gamba Adorno. Spesso pizzicava un evento interessante e ci andavamo insieme. Una sera andammo alla libreria Farhenheit a Campo de’ fiori ad ascoltare la Pivano e le sue storie sulla beat generation. Ero emozionatissimo. Per me la Pivano rappresentava una degli ultimi messaggeri di un passato fatto di pirati, trafficanti, capitani coraggiosi. Gli aneddoti che andò scoprendo furono struggenti e la sua voce roca faceva venire la pelle d’oca. Ma fu come ascoltare un relitto. Quell’approccio con la scrittura era finito. La Parigi di Miller era scomparsa. Hemingway si era suicidato. La libertà tra Cassady, Ginsberg e Corso s’era ridotta a un’ammucchiata tra froci. A Roma non c’erano gruppi né avanguardie né personaggi trainanti; o almeno io non entrai a far parte di nessuno di essi. Ognuno andava per conto suo. Ognuno restava chiuso nel proprio sogno convinto di far bene. Eppure in città ce n’era tanti che scrivevano. Talmente tanti che se ci fossimo comprati ognuno il libro dell’altro avremmo campato di rendita.
Erano riconoscibilissimi gli aspiranti scrittori, con quei quadernoni in mano a guardare il Tevere per farsi venire l’ispirazione, o al tavolo di un caffè con la penna in bocca, gli abiti trasandati, i capelli spettinati. Io invece me ne stavo in disparte, rintanato in casa, con una bottiglia di vino sulla scrivania, battendo la tastiera del vecchio Pc mentre Penelope dormiva; le lanciavo uno sguardo e mi sentivo un re. Non ero beat, non ero capace, non ero ancora riuscito in niente, ma mi sentivo bene quando ci provavo.
Le telefonate quel giorno furono meno ossessive ed ebbi il tempo di ripensare a un’altra sera, quando io e Adorno andammo a un reading beat a Villa Ada.
Parcheggiammo l’auto, pagammo il biglietto ed entrammo. C’era parecchia gente. Il prato era invaso da centinaia di sedie di plastica. Ne trovammo due libere e un tavolino non distanti dal palco e ci sedemmo. Il reading cominciò sul momento. Diane Di Prima con le sue urla aveva grinta, come no, ma non era nelle mie grazie. Insomma, il concetto s’è capito, non star lì a menarla quella parola in eterno, le avrei detto. Ma lei niente, urlava Fire Fire Fire fino allo sfinimento prima d’acquietarsi e cambiar vocabolo. In segno di chissà quale lirismo non riuscivo proprio a capire. «Immagina se al posto suo avessi ripetuto Fica Fica Fica una quarantina di volte», dissi. «Al minimo ti avrebbero cacciato fuori a vergate e sputi», replicò Adorno. Mi alzai e andai in giro per il parco. Adorno restò a contemplare quella pazza. M’interessai agli stand in cui vendevano libri. In quelle occasioni ero solito prenderne qualcuno. La mia attenzione cadde su un saggio di Simmel, Metropoli e personalità. L’avevo letto ma non ne possedevo una copia. Possedere la copia di un libro è importante. Puoi riprenderlo ogni volta che ti pare, girartelo per mano, leggere addirittura delle pagine intere. Di quelli buoni s’intende.
Me lo infilai sotto la maglietta e uscii dal gazebo fischiettando.
Ecco, al tempo ero convinto che i libri non andassero pagati. E ne ero convinto al punto d’aver rubato la maggior parte di quelli che avevo in casa. Per me i libri rappresentavano un bene talmente importante da dover essere distribuiti gratuitamente come l’aria. Dato che ciò non accadeva mai, li rubavo.
Di seguito mi fermai al bar e comprai due birre. Tornai a sedere. Misi le bottiglie e il libro sul tavolo. Adorno avviò a leggerlo. Diedi un sorso alla birra. E venne finalmente il turno del mio poeta. Era lui il mio idolo, l’anello di congiunzione tra tutti gli altri. Un immortale ancora in piedi carne e ossa a darci addosso alla vecchia maniera. Ferlinghetti a passo lungo e deciso sistemò i fogli sul leggìo e avviò la lettura. Già alle prime parole afferrai che assistere a un reading è l’opposto di straccare sul divano a leggere. La poesia ha origine nel momento in cui la mente divorava il rilancio dei versi, e oltre le parole stesse, è la voce penetrante del poeta a creare poesia, ad affascinare.
Restai lì a bocca aperta, a sorsare birra, a librare vibrando.
Quando la lettura terminò applaudii contento. Anche Adorno era su di giri, «Giriamo attorno al recinto ed entriamo dal retro. Andiamoli a trovare, i poeti!», disse.
Andammo dietro al palco. Il backstage era circondato da reti metalliche con su cartelli di Pericolo di morte - Alta tensione. Il cancello era mezzo aperto e difeso da un buttafuori enorme. Facemmo gli indiani aspettando che si distraesse per intrufolarci. Dopo poco passarono schiamazzando dei ragazzi ubriachi. Il bestione si mosse verso di loro e sgattaiolammo dentro al recinto. Fummo proiettati in un’atmosfera godereccia. I poeti parlavano, mangiavano e bevevano rumoreggiando in cricche di due o tre, ognuno con il piatto colmo, il bicchiere a portata di mano e il cartellino giallo di riconoscimento appeso al collo. Sul tavolone allestito con cibo e beveraggio era tutto alla rinfusa, mangiato e lasciato a metà. Le bottiglie vuote riverse sul tavolo erano un centinaio. Dovemmo rabboccare alcuni bicchieri per farne uno intero. Di commestibile non era rimasto nulla. Adorno avviò una discussione con un gruppo di poeti. Io incrociai Ferlinghetti in compagnia di una bella ragazza con un opuscolo tra le mani. Si misero in disparte. Mi avvicinai a loro e origliai, «Perché non vieni a casa mia stasera, mi farebbe piacere», suggeriva l’ammiratrice. E Ferlinghetti niente, si gongolava guardandola negli occhi. «Dai, non farti pregare. Beviamo un drink e ti leggo le mie poesie. Ti piaceranno!», allora Ferlinghetti carezzò tra le gambe la giovane raccontandole una cosa all’orecchio.
Anch’io avrei voluto dargli il mio libretto di poesie e discuterne. Ma a quel punto mi parve ridicolo come un bambino allo zoo che offre arachidi ai pachiderma.
Arrivò il cuoco con una pignatta colma di spaghetti. I poeti s’avventarono a prenderne un piatto, mentre Ferlinghetti, beato in un angolo, si ripassava la ragazza.
I ricordi svanirono.
Erano le tredici, l’ora del pranzo.
Mi tolsi le cuffie, smontai dal seggiolone e mollemente andai in mensa.
Nonostante tutto avevo un certo appettito.

mercoledì 9 aprile 2008

IX

IX

Si dice che il Quartiere sia pericoloso per via dei junkies, i barboni strafatti di crak. Io sono venuto su a Castellammare di Stabia nel tempo in cui c’era il Far West e ne ammazzavano un paio al giorno. Si andava in giro col timore di essere uccisi per caso, di essere picchiati senza motivo, scippati del motorino o degli occhiali da sole. Quelli all’opera dalle mie parti erano crudeli, spietati, e se ne fregavano di tutto. Feccia a cui non era possibile guardare sbieco che venivi aggredito selvaggiamente senza motivo. Ribellarsi era impossibile. Chi alzava la voce cercando giustizia veniva posto in minoranza dagli stessi cittadini che per pararsi il culo si alleavano ai bastardi con infamia. E chissà come dal giusto si passava dalla parte del torto. La città era in mano alla delinquenza non solo economicamente ma soprattutto socialmente. Crescere in un ambiente simile forgia un ragazzo a una certa maniera. Io so bene cosa sia la delinquenza. Un marchio che mi porterò per sempre dentro. Il marchio sudicio della camorra.
Per questo quando guardo all’opera i pericolosi junkies afferro che si tratta di un pugno di sciancati cagasotto. I junkies che pascolano al Quartiere a confronto dei camorristi sono dei conti, dei marchesi, vengono dell’alta società. A me fanno tenerezza mentre raccattano una cicca per una fumata. Magari la gente perbene osservandoli così sporchi e malandati crede di avere a che fare con pericolosi assassini e li evita intimorita. Al contrario basterebbe attraversarli battendo le mani e fuggirebbero via come uno stormo di piccioni.
Troppo spesso l’uomo si fa un’idea sbagliata delle cose. Specie quando questo qualcosa è brutto e fa schifo.
Allo stesso modo ho afferrato che la tolleranza ad Amsterdam è solo un paravento bene sponsorizzato.
Come sono educate le persone del Nord Europa. Che stile. Che classe hanno. Mai una parola fuori posto, mai un accenno di sopraffazione, mai fuori dalle regole. Che brava gente, vero, gli olandesi! In Olanda tutto fila via liscio. Si rispettano le code, i mezzi di trasporto sono impeccabili, in banca vieni accolto come in albergo, si fa la raccolta differenziata, e sopra ogni cosa la popolazione coesiste in pace con etnie emigrate da mezzo mondo col loro carico di tappeti, baffi neri, donne col velo, negri, italiani e tutto il resto del baraccone. Un bell’esempio di civiltà. Così dicono tutti.
Eppure, io ci vedo del marcio. I conflitti mi balenano sinceri. Devo solo metterli in fila come le pedine del domino. Non che sia uno scienziato convinto di aver scoperto la verità, e nemmeno ho voglia di mettermi lì a puntare il dito come un bacchettone, solo che alcune cose mi puzzano e le faccio presenti. Pensieri che non resisto a tenere dentro. Insomma il fatto è questo. Al centro di Amsterdam vive un popolo composto da mille razze ed epidermidi. Sono i giovani forestieri che lavorano nelle multinazionali, gli studenti universitari, gli allievi dei corsi internazionali e via discorrendo. Ce n’è per tutti i gusti: neri, bianchi, gialli, latini, ebrei, musulmani, di qualunque estrazione sociale e provenienza. Affianco a questa moltitudine eterogenea ecco i biondi e alti giovani olandesi, i paesani, quelli che governano il paese e si arricchiscono commerciando bulbi e investendo in immobili. Un luogo di tolleranza e opportunità. Questa è l’idea che tutti si fanno della città.
Facciamo caso di spostarci verso la periferia e le cose cambiano radicalmente. Entriamo nei ghetti. Gein e Bijlmer sono quelli dei negri. Poi come tante polis attorno al nucleo sorgono i satelliti turchi, marocchini, arabi. Lì stranamente non vivono olandesi alti e biondi né gente internazionale. Si tratta di specie estinte come i dinosauri. I superstiti di pelle bianca sono i poliziotti. E non è stato il governo a mandare tutti i negri in un posto o tutti i marocchini in un altro. La causa di questo movimento costretto è frutto di una selezione naturale. Gli immigrati a forza di cose si sono rifugiati dove hanno potuto permettersi il pigione e insieme a quelli del proprio paese hanno creato un micromondo, circoscritti in un diametro più o meno ampio, in cui manifestare la propria diversità, professare la religione, dar luogo alle tradizioni, le usanze, in modo da stemperare la malinconia. Questi ghetti (dei paradisi paragonati ai quartieri popolari napoletani) sono circondati da mura invisibili e invalicabili per gli olandesi alti e biondi e la gente internazionale. Loro non frequantano mai i ghetti. E nemmeno io. Molti ne ignorano perfino l’esistenza. Stanno lì. Come dei tumori benigni. E finchè non rompono i coglioni e lavorano tutto bene. Ma se si tratta di mescolarsi con loro, viene dura. E molto.
In conclusione, questa città che tanto sfoggia civiltà ed educazione, è uguale a tutte le altre città, in cui il diverso fa paura. La gente è sola. Dovunque si vada. L’uomo è una bestia sociale più per paura che per sentimento.

domenica 6 aprile 2008

VIII

VIII


Shina beveva troppo. Spesso la mattina dopo essersi sbronzata trovavo il mio pranzo da portare in ufficio mezzo smangiato. O del vomito nel lavello della cucina. O bottiglie vuote sul tappeto inzaccherato. Shina soffriva di tremendi vuoti di memoria. Se le chiedevo di evitare il frastuono di pentole dopo essere rincasata al mattino era capace di rispondermi duramente: «Io non sono mica uscita ieri sera!»
Queste sue mancanze si ripercuotevano sul mio riposo. Nel senso. Tutte le volte che durante la settimana Shina rincasava tardi facendo baccano, Jerun, il vicino matto, alle cinque del mattino lanciava a tutto volume Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. Il bastardo adorava gli Zeppelin e metteva su sempre lo stesso disco. Non ci fu mai modo di parlare con Jerun della cosa. Appena cercavo di avvicinarlo scappava via e Shina come andavano realmente le cose non lo capì mai. Shina aveva qualcosa che non andava. Talvolta prendeva e urlava come una pazza senza motivo. Una sera mi preoccupai sul serio. Credetti avesse avuto un attacco di cuore, un ictus o che so io. Dopo un urlo tremendo mi affacciai in camera sua.
- Shina? Posso entrare?
- Certo, entra.
Shina rovistava tra i cassetti alla disperata ricerca di qualcosa. Per terra c’era una bottiglia di whisky vuota.
- Come mai hai gridato? Tutto bene? Posso fare qualcosa?
- Gridavo? Io non ho gridato. Forse è stato quello del piano di sopra, that motherfucker!
Non era il caso di discuterne.
- Ok, torno in salone a leggere.
Poco dopo urlò di nuovo. Un urlo acuto, come di terrore profondo. Tornai in camera sua.
- Shina hai urlato di nuovo?
- Cazzo no, non ho gridato. Non sono stata io - disse infastidita.
Barcollava.
- Cosa stai cercando? - le chiesi gentilmente.
- Le cartine, non riesco a trovare le fottute cartine.
Mi sedetti sul letto. Era morbido. Avevo avuto una giornata pesante al lavoro. Mi stesi.
- Oh! Trovate! ‘ste stronze.
S’inginocchiò e avviò a rullare tra le mie gambe. Con un’intera stanza a disposizione proprio lì andò a mettersi. S’intrippò parecchio per chiuderla e con i gomiti mi premeva tra le cosce. Shina cominciò a parlare del suo lavoro. Lo stress la logorava. Il quadrimestre stava terminando e doveva aumentare le vendite. Al team manager non interessava altro che chiuderlo zeppo di contratti. Le stavano appiccicati al culo incitandola e motivandola a dare il massimo. Lei andava bene, vendeva e guadagnava soldi. Parlò delle colleghe invidiose dei suoi successi, dei colleghi che ci provavano e di come le pareva assurdo tutto ciò.
Accese la canna e diede due boccate profonde. Shina era stordita. Le si spalancò qualcosa nella memoria. O forse volle cacciare fuori un po’ di merda che si teneva dentro.
- Quel figlio di puttana! Anche sui giornali è uscita la notizia. Mio fratello è avvocato, sai? È avvocato mio fratello. È un avvocato importante e ha clienti in tutta Europa. L’ha seguita lui la causa contro quel prete schifoso!
Shina restava in ginocchio sul pavimento con la testa poggiata tra le mie gambe, e parlava, parlava in continuazione, a raffica parlava di questo prete degenerato. Non sarebbe bastato un kilometro di nastro per registrare tutto quello che andava raccontando.
- Solo nove anni aveva, hai capito? Nove anni. La figlia di mia sorella, capisci? La mia nipotina. E lui le ha fatto fare quelle cose sporche, sudice, quel bastardo figlio di una cagna. Ah! Mio fratello! Mio fratello è un avvocato importante, è avvocato mio fratello e lo manderà alla forca a quel sudicio maiale, alla forca!
Diede una lunga boccata e me la passò. Feci un tiro. Mi sentii subito fatto. Un purino di super skunk avrebbe tagliato le gambe a chiunque. Shina solo quello fumava. Anche al lavoro. Come riuscisse a reggerlo era un mistero.
Shina cominciò a carezzarmi la gamba mentre parlava. E senza volerlo ebbi un’erezione. Shina se ne accorse continuando a carezzarmi senza centrare il bersaglio. Ci girava delicatamente intorno. Afferrai al volo un istante di lucidità.
- È difficile lottare contro la malvagità della gente. La giustizia farà il suo corso e tuo fratello farà un ottimo lavoro. Stai tranquilla.
Fu il massimo che riuscii a dirle.
- Mio fratello è un avvocato importante, è conosciuto in tutta Europa, in Europa lavora. Mio fratello è un avvocato molto rispettato, è un pezzo d’uomo poi vedessi, ha due spalle così e fa l’avvocato. Cristo, quel prete maledetto!
Shina fece una smorfia di disgusto assoluto, poi esclamò:
- Deve morire quel maledetto cane! E mio fratello lo farà ammazzare, lo farà ammazzare a quel figlio d’una troia!
Si alzò in piedi, si tirò su la gonna e si tolse le calze. Aveva mutandine bianche, semplici. Poi si mise a rovistare tra i cassetti mettendomi il sedere proprio in faccia. Sembrava facesse proprio apposta a piegarsi in avanti così sfacciatamente. Shina aveva un bel sedere.
- Sono stanco. Vado a letto. – le dissi.
Si voltò contrariata e mi pacchettò la testa come si fa a un cretino.
- Vai baby, vai baby, vai a dormire. Tutto bene qui, vai a dormire baby. Io non ho bisogno di nulla.
Andai in cucina. Bevvi un sorso d’acqua.
Non mi andava di immischiarmi a certe cose. Lei aveva i suoi mostri, io i miei. Andarci a letto non mi veniva proprio. Gli angeli ci volevano. E io non lo ero.
Scivolai sul soppalco. Mi infilai sotto il piumone. Shina non urlò più e poco dopo mi addormentai stordito dal super skunk.
Quella notte Jerun non attese l’alba. Erano le tre. Lanciò al massimo del volume Black Dog. Mi schiacciai il cuscino in faccia e mi misi a cantare. Lallàllalà.